Gabriella Montanari: “Carmen sanum in corpore sano”

[Arben Dedja: „The Vanishing Twin„]


In questo preciso istante c’è solo una distesa di acqua salata che separa la terra d’origine di Arben Dedja dalla mia. Qui, la costa romagnola irrorata dal polline dei pini. Sull’altra sponda, scavalcato l’Adriatico bicolore e puntato il timone un po’ più a sud, l’Albania da cui ancora si parte con un bagaglio a mano di speranze.
Arben, dalla sua terra, se n’è andato più di quindici anni fa, con una laurea in medicina come lasciapassare. Quella verso l’Italia è stata una traversata forse già iscritta nel suo DNA: impara l’italiano da bambino, traduce Cavalcanti, Montale e Saba, scrive poesie direttamente nella nostra lingua o si autotraduce. Oggi fa ricerca nel campo della cardiochirurgia pediatrica presso l’Università di Padova.

Ed è così che penso a lui: il dottore poeta con un bisturi penna tra le dita.
Leggo i suoi versi per la prima volta ed è immediata la sensazione di familiarità. Li rileggo con sempre più curiosità e trasporto, da poeta che si confronta per imparare e crescere. Mi soffermo una terza volta su questa raccolta con una punta biforcuta di rammarico e invidia per non essere diventata anch’io un camice bianco, come vagheggiavo da bambina. Per non aver saputo conciliare gli interessi per la scienza e la letteratura, per averli considerati incompatibili. L’emisfero sinistro contro il destro. Il mestiere contro il piacere. Dedja invece lo fa, con una sensibilità così spiccata e tenera che, anche quando estrae e sfodera parole affilate e vocaboli tecnici, viene spontaneo affidarsi completamente al suo tocco delicato da chirurgo che sa indossare i guanti. L’umanità di chi sceglie consapevolmente la professione medica avvicina il poeta all’altro, al proprio simile e diventa un valido baluardo contro il diffuso autoreferenzialismo. “Siamo tutti | esseri umani”, scrive Arben.
La medicina, direttamente o indirettamente evocata, riveste un ruolo di prima donna in questa raccolta e non è cosa scontata, non trattandosi di un soggetto da tipico repertorio lirico. Non diventa mai sterile nozionismo o freddo tecnicismo.
Dedja ha il dono della traslazione, del parallelismo senza artifici né retorica. I suoi versi viaggiano su binari di dimensioni e significati naturalmente paralleli. Il sonno del figlio febbricitante richiama la malattia del giacere. L’elusione del meccanismo di anoìkis (dal greco, “senza casa”: la morte programmata delle cellule distaccate dalla loro matrice) da parte delle metastasi è associata al distacco dalla vecchia madre, dalla casa in cui è cresciuto. L’allontanamento dalle radici ha forse un ruolo nel cancro delle nostre vite e delle nostre morti? Citando il nome di Jules-Émile Péan, padre della chirurgia addominale, il poeta rimanda velatamente all’omonimo dio guaritore presso i greci (appunto Péan, identificato successivamente con Apollo) e ai canti corali in suo onore per richiedere protezione o ringraziare per le grazie ricevute.
È evidente sin dal titolo della raccolta, “The vanishing twin”, che la forte umanità di Arben affonda le sue radici là dove il futuro uomo è ancora in gestazione. Letteralmente. Senza voler anticipare una rivelazione che giunge sul finire del libro (appunto sul suo “svanire”) come un taglio che non lacera ma, al contrario, ricuce i vari lembi di un’intera vicenda umana, qui basterà soffiare all’orecchio del lettore la peculiarità della dimensione della “dissolvenza” nella poetica di Dedja.
Che scriva di esistenze anteriori alla vita, di generazioni (la sua e quella dei suoi figli) accumunate dal limbo dell’infanzia, del sipario calato sull’Albania degli scontri e dell’anarchia, della malattia (del corpo e del vivere) come punto d’intersezione tra la vita e la morte: immagini mai veramente ovattate, per quanto lontane possano essere, bensì vividi e materici ponti di collegamento (o punti di sutura) tra i tempi vissuti.
Nella sezione d’apertura, “L’ora del bagno”, a cui istintivamente ho associato la mia ora del Carosello, si fondono i vapori evanescenti dell’infanzia albanese del poeta con quelli più densi della fanciullezza dei suoi figli. Arben bambino/ragazzo passa il pallone a Dedja uomo/padre. Il quotidiano di allora sfuma in uno più recente. Resta immutata la sensazione avvolgente di calore domestico, di compiacimento per i piccoli dettagli che cristallizzano la piacevolezza del ricordare.
S’inseriscono la fierezza e l’orgoglio del padre, del capofamiglia, insieme alle premure di un papà che pare autoinvestitosi anche del ruolo materno. Vi è la duplice dimensione del dare e ricevere protezione. La casa, gli affetti, presenti e passati, sono rifugio. Guscio che accoglie e ripara, corazza dentro cui sognare, al sicuro. Guscio di noce, di pinolo. Cachi e mele cotogne. Cotogna, frutto antico, sacro ad Afrodite. Frutti autunnali. Stagione dei morti. Ma la morte non è uno spauracchio: il medico ne conosce le insidie e, nei limiti dell’umano, sa contrastarla o procrastinarla; d’altro canto il poeta non teme la promiscuità con i defunti.
Più difficoltosa sembra essere l’accettazione del declino e dell’invecchiamento. E non è di consolazione vedere perpetuarsi in natura lo stesso destino, l’alternarsi di fasi di vita rigogliosa ad altre di sfioritura e putrescenza. Non basta sintonizzarsi con i cicli e le stagioni che si avvicendano:
la natura vivrà sempre più a lungo, sopravvivrà all’uomo, l’ultimo ad arrivare e il primo ad andarsene.
Però, e qui sta la profonda leggerezza della poesia di Dedja, al “marciume del nulla” o al “porcaio d’esistenza” sono affiancate immagini di trasformazione e mutamento che suonano come un inno alla vita e alla bellezza dei suoi necessari e inevitabili cambiamenti. Immagini fornite al poeta dai tre regni del mondo naturale. Di nuovo la mela cotogna, a metà strada tra il fiore e il frutto, il sapore acre da cruda e dolce quando diventa confettura, la morbida peluria che riveste la buccia: le fanciulle la colgono mentre si affrettano verso il tempo delle donne. Il baco da seta che tesse il bozzolo, i figli che crescono e trovano il loro cammino nel bosco della vita. Il ferro si altera
e ossida nelle intemperie, ma i giovani, nel diventare adulti, non devono cedere alla ruggine degli asti e delle acredini.
Quella di Arben è una natura metaforica che interagisce con l’uomo in veste di suo alter ego.
Il poeta si rivolge alla cimice, al picchio, all’aquila. Adagia i versi su una coltre di muschio o all’ombra del pino nero, del gelso o del vecchio noce. A tratti, persino gli oggetti sono caricati di attributi umani (lenzuola capaci di ricordare e pensare), altre volte è l’uomo ad assumere le caratteristiche del manufatto (le profondità dell’animo simili a quelle di un bunker).
Oggettivato o naturalizzato che sia, l’uomo è il secondo protagonista di questa raccolta. Il poeta ora lo celebra, con sentita ammirazione, per gli indiscussi meriti (gli scienziati Calmette e Guérin, inventori del vaccino antitubercolotico); ora, con bonaria ironia, lo ridicolizza per le antitetiche conquiste nel salvare e distruggere vite (Joseph Guillotin, Presidente della Lega dei Medici, fondatore del Comitato della Salute eppure inventore della ghigliottina; o Richard Gatling, colto medico galantuomo inventore della mitragliatrice…); ora utilizza l’arma del sarcasmo per condannarne la cecità politica, la repressione culturale e l’ottusa violenza (il Partito, la polizia albanese).
In tutte le sezioni che compongono “The vanishing twin” echeggiano le voci e i suoni della patria lasciata alle spalle: alcuni sono appena sussurrati, come quelle verità inconfessabili svelate a lui solo, ancora bambino, dal nonno ex ministro; altri, spiati, come quando la madre faceva l’amore nella stanza accanto; altri ancora, improvvisi e mortiferi, come lo scoppio di una granata o il rombo di un attacco aereo.
La bandiera albanese, con quella sua aquila nera bicefala su sfondo rosso, appare ridicola agli occhi del poeta, ma non vi è disprezzo nelle sue parole. Chi odia ama, no? Certo, non si può amare un regime, né i suoi soprusi, le censure o le ingiuste ristrettezze; come non resta che sfuggire agli orrori della guerra civile e del caos sanguinario. Eppure quell’aquila, simbolo di rivolta e anelito alla libertà, si aggira di continuo nel cielo poetico di Arben e lo fa con un volo dalle tinte forti, intrise di dolcezza o rabbia, mai neutre.
E sta nel finale della poesia che dà il titolo alla raccolta la chiave per la quadratura del cerchio, l’alfa e l’omega del sentire da cui scaturisce la poetica dell’autore: “ – Sono | denti capelli | pezzo raggrinzito | di cranio | non assorbito | del mio gemello | della mia Patria.” Patria che resta, al pari di una traccia nera sulla pelle, come un’ombra del cuore, ma pur sempre con la P maiuscola. Patria svanita come quel gemello mai nato.

Arben Dedja: THE VANISHING TWIN
a cura di Mia Lecomte
prefazione di Gabriella Montanari
© Salento Books