Dal
punto di vista cronologico, il primo racconto della raccolta che ho scritto è Quel luogo da cui tutte tornano. Si
tratta di un testo particolare, diverso dalle altre cose che scrivo, direi
quasi “di occasione” e “di esercizio” (o per meglio dire “di suggestione”). Ero
arrivato da pochi mesi in Francia, a Montpellier, dal Belgio per iniziare a
lavorare all’università. Per me era un momento particolarmente eccitante, ma
anche spaesante. Avevo lasciato una città, Bruxelles, in cui mi ero trovato
particolarmente bene e in cui avevo tessuto diversi rapporti professionali e di
amicizia, ma soprattutto una città che mi aveva ispirato per la mia scrittura.
All’inizio non riuscivo a capire Montpellier. Si trattava di una città francese
mediterranea, ma sicuramente non era Marsiglia. Era una città sul mare, ma
essendo la spiaggia a otto chilometri non dava affatto l’idea di un contesto
marittimo. Era grande, senza esserlo troppo, ma non era neanche un paesino. Era
sud, ma era pur sempre Francia, dunque abbastanza nordica. Vi cercavo elementi
di Bruxelles e Roma (le “mie” due città) senza trovarli; invece gli elementi
originali mi sfuggivano.
A dicembre ero tornato a Roma per qualche giorno, per partecipare a un festival letterario. Avevo comprato un piccolo libro di racconti di una scrittrice argentina che allora era ancora poco conosciuta, Mariana Enríquez, Quando parlavamo con i morti. Si trattava di tre racconti horror/fantastici, in cui l’elemento sovrannaturale entrava e usciva dalla narrazione con naturalezza, come se nella realtà in cui viviamo vi fosse continuamente un passaggio verso una dimensione altra. In particolare mi aveva colpito il terzo racconto, in cui una ragazza che lavorava all’archivio di Buenos Aires per i bambini scomparsi si rendeva conto che, nella piazza di fronte al suo ufficio, uno dopo l’altro questi bambini stavano ritornando. Non facevano nulla, aspettavano nella piazza la sera e la salutavano quando li incrociava uscendo dall’ufficio. Una sera però non li aveva più visti: erano andati a vivere in un grande edificio abbandonato alla periferia della città. Era passata a salutarli, loro non erano scesi dal balcone e le avevano semplicemente detto: “Passeremo l’estate qui, poi scenderemo di nuovo”. La paura dell’inconoscibile mi era rimasta anche dopo la fine della lettura, e quel racconto aveva continuato a ronzarmi in testa per diverse settimane. In ogni caso la mia vita era andata avanti: ero tornato a Montpellier, ritornato a Roma per Natale e tornato un’altra volta a Montpellier per l’inizio dei corsi. Quindi erano arrivati agli attentati.