Dal
punto di vista cronologico, il primo racconto della raccolta che ho scritto è Quel luogo da cui tutte tornano. Si
tratta di un testo particolare, diverso dalle altre cose che scrivo, direi
quasi “di occasione” e “di esercizio” (o per meglio dire “di suggestione”). Ero
arrivato da pochi mesi in Francia, a Montpellier, dal Belgio per iniziare a
lavorare all’università. Per me era un momento particolarmente eccitante, ma
anche spaesante. Avevo lasciato una città, Bruxelles, in cui mi ero trovato
particolarmente bene e in cui avevo tessuto diversi rapporti professionali e di
amicizia, ma soprattutto una città che mi aveva ispirato per la mia scrittura.
All’inizio non riuscivo a capire Montpellier. Si trattava di una città francese
mediterranea, ma sicuramente non era Marsiglia. Era una città sul mare, ma
essendo la spiaggia a otto chilometri non dava affatto l’idea di un contesto
marittimo. Era grande, senza esserlo troppo, ma non era neanche un paesino. Era
sud, ma era pur sempre Francia, dunque abbastanza nordica. Vi cercavo elementi
di Bruxelles e Roma (le “mie” due città) senza trovarli; invece gli elementi
originali mi sfuggivano.
A dicembre ero tornato a Roma per qualche giorno, per partecipare a un festival letterario. Avevo comprato un piccolo libro di racconti di una scrittrice argentina che allora era ancora poco conosciuta, Mariana Enríquez, Quando parlavamo con i morti. Si trattava di tre racconti horror/fantastici, in cui l’elemento sovrannaturale entrava e usciva dalla narrazione con naturalezza, come se nella realtà in cui viviamo vi fosse continuamente un passaggio verso una dimensione altra. In particolare mi aveva colpito il terzo racconto, in cui una ragazza che lavorava all’archivio di Buenos Aires per i bambini scomparsi si rendeva conto che, nella piazza di fronte al suo ufficio, uno dopo l’altro questi bambini stavano ritornando. Non facevano nulla, aspettavano nella piazza la sera e la salutavano quando li incrociava uscendo dall’ufficio. Una sera però non li aveva più visti: erano andati a vivere in un grande edificio abbandonato alla periferia della città. Era passata a salutarli, loro non erano scesi dal balcone e le avevano semplicemente detto: “Passeremo l’estate qui, poi scenderemo di nuovo”. La paura dell’inconoscibile mi era rimasta anche dopo la fine della lettura, e quel racconto aveva continuato a ronzarmi in testa per diverse settimane. In ogni caso la mia vita era andata avanti: ero tornato a Montpellier, ritornato a Roma per Natale e tornato un’altra volta a Montpellier per l’inizio dei corsi. Quindi erano arrivati agli attentati.
All’inizio alla sede del giornale Charlie Hebdo, poi a Bruxelles. Nell’autunno del 2015 ancora a Parigi, in diversi luoghi e con molti morti. Alcuni colleghi andavano al lavoro con la spilla “Je suis Charlie”. In generale notavo che un razzismo anti-islamico, già latente, era sempre più evidente in città. Anche persone che teoricamente avrebbero dovuto riflettere per approfondire il discorso e non lasciarsi attrarre dalla logica binaria del “noi” e del “loro” o peggio del “noi contro di loro”, cadevano facilmente in questa trappola identitaria. Proprio a partire dalle polemiche che c’erano in Francia all’epoca, e che continuano tuttora, mi è venuta l’idea del racconto. Mi rendo conto che, fra i cinque della raccolta, questo possa essere considerato il racconto più problematico: la descrizione delle donne velate, dell’altra come inconoscibile, potrebbe essere vista come una visione orientalista, quasi razzista, ma in realtà è proprio il contrario. C’è effettivamente qualcosa che non conosciamo (o almeno che non conosco) in queste donne, ma è proprio questo il fulcro della narrazione: a partire da questo “inconoscibile” non agiamo con razionalità, dialogando con loro e cercando di capire che cosa sia loro successo, ma riempiamo questo vuoto di conoscenza con stereotipi razzisti. Il punto di vista della narrazione è infatti quello di un uomo bianco integrato nella società francese (lavora, proprio come me, all’università) che però non è francese, dunque guarda questa società da un punto di vista esterno. Non è ai margini come le donne velate, ma non è nemmeno al centro. Non è razzista come gli altri, ma non è neanche del tutto non razzista, perché anche lui non riesce a gestire l’ignoto. Già dall’incipit è chiara la sua posizione:
La prima volta che avevamo visto la sua fotografia, tutta stropicciata e malamente attaccata al palo giallo di un semaforo vicino alla Mosson, non ci avevamo trovato nulla di strano. Eravamo appena usciti dall’ufficio comunale, dopo un’ora di fila che ci era sembrata interminabile e dieci minuti di una discussione di cui non avevamo capito quasi nulla (come fare per avere i soldi? Già pensavamo che non li avremmo avuti mai); a un ragazzo che stava guardando la foto insieme a noi era uscito un commento sgradevole: «Neanche si vede la faccia, con questo velo. Potrebbe essere chiunque». Però non aveva tutti i torti. La ragazza fotografata – il manifesto diceva che erano due giorni che non si avevano sue notizie ma curiosamente non era stata indicata la data, quindi poteva essere lì da molto tempo – non si vedeva granché bene; il velo nero le copriva capelli e orecchie, gli occhi erano truccati o molto scuri, il bianco e nero dell’immagine non lasciava neanche immaginare colori e sfumature del viso.
Il
commento del francese accanto a lui è definito “sgradevole”, dunque non
accettabile, ma al tempo stesso il protagonista ammette che l’uomo che aveva
pronunciato queste parole “non aveva tutti i torti”. È dunque vicino e lontano da
lui, nello stesso tempo. In generale in tutti i racconti ho cercato di
mantenere questa duplicità, anche ambiguità se vogliamo, per creare personaggi
sfumati, che non esprimessero solo un punto di vista o totalmente un punto di
vista.
Il racconto di Enríquez mi ha dato l’idea delle sparizioni e delle riapparizioni; la domanda in questo caso non è solo sul perché queste donne siano sparite (anzi, forse a questa domanda la risposta è fin troppo semplice), ma su dove siano andate, su che cosa abbiano visto, sulla ragione per la quale non ricordano più nulla. Si crea dopo la loro riapparizione una distanza ancora più ampia con il resto della popolazione, ed è proprio questo a fare paura. Il protagonista in tal caso si rivela ai margini di un mondo in cui prima era pur sempre in una posizione semi-centrale, ed è qui che si svela il suo orrore. Orrore che, ci tengo a precisarlo, è appunto solo suo e di una parte della società, perché non è affatto detto che questo mondo di sparizioni e riapparizioni di donne velate sia peggiore del precedente.
Non
saremmo più tornati.
Non sarebbe servito a niente, ma non saremmo più tornati. Il mondo che stavano creando era forse migliore di quello in cui avevamo vissuto fino ad allora ma ci faceva troppa paura. E non ci facevamo neanche illusioni: presto sarebbero sparite e tornate anche qui…
Il racconto che dà il titolo alla raccolta, Il diario delle mie sparizioni, l’ho invece iniziato a scrivere nell’estate del 2021. A pensarci adesso, è stato scritto proprio in un momento in cui eravamo spariti tutti. Avevamo infatti passato da poco la pandemia di Covid nel 2020, un periodo nel quale non si poteva uscire di casa e dove le relazioni si creavano soprattutto attraverso gli schermi del telefono: ma eravamo davvero sicuri che dietro quegli schermi ci fossero i nostri familiari e i nostri amici? Come potevamo essere certi che non fossero spariti tutti e che quelle non fossero semplici registrazioni? A partire da un dilemma ontologico più grande (la relazione fra realtà e finzione, fra vero e falso, fra virtuale e reale), sono poi passato alla sua messa in pratica in chiave quotidiana, quindi più piccola. Che cosa succede, infatti, ad un uomo che scompare un giorno su due? Il mezzo del diario mi sembrava il più appropriato, anche perché attraverso il diario potevo costruire “in diretta” la sorpresa del protagonista, che si rendeva conto volta per volta delle proprie sparizioni, e delineare in modo appropriato la sua personalità: volevo infatti un protagonista razionale, alla maniera dei personaggi di Italo Svevo e Pirandello, che non si chiedesse perché spariva e dove andava, ma che cercasse più prosaicamente di sopravvivere (o di vivere nel modo migliore) con le proprie sparizioni. Mi piaceva anche il fatto che il primo segno di sparizione fosse avvenuto in un contesto banale, assolutamente quotidiano, come una partita di calcio con gli amici.
Il
primo giorno in cui sono sparito lo ricordo bene. Lo ricordo come assenza,
intendo, perché di ciò che è realmente successo, quel giorno come tutti gli
altri che sarebbero venuti in seguito, non ho alcuna memoria. Nessun luogo
lontano dove nascondermi, nessuna realtà parallela, nessun altrove:
semplicemente, non c’ero più. All’epoca avevo poco più di vent’anni e non avevo
ancora l’abitudine di scrivere e segnare i giorni delle mie assenze, quindi la
data l’ho ricostruita a posteriori. […]
che
fine avevo fatto, domenica?
Il
sabato sera avevo fatto un lungo giro in Vespa con una ragazza, eravamo andati
in un parco aperto la notte, ma era vuoto e metteva paura. Doveva tornare a
casa presto, l’ho riaccompagnata e non ci siamo baciati.
Qualcuno
dal locale è uscito e ci ha detto che stavano per chiudere. Scusate, ha
ripetuto due volte sembrando sincero, scusate ma dobbiamo proprio chiudere,
siete rimasti solo voi. Abbiamo pagato e ci siamo salutati, poi ognuno è salito
sul proprio motorino.
La
sera successiva sono andato al cinema, da solo, a vedere Goodbye Lenin. Era la prima volta che vedevo il viso di Daniel
Brühl, ma l’ho trovato stranamente familiare. Alla fine del film ho provato una
nostalgia particolare, come se i protagonisti fossero dei vecchi amici che non
vedevo più da tempo e avessi perso qualcosa di irrecuperabile.
Non
riuscivo ancora a ricordare dove fossi andato la domenica precedente, ma
ricordo di aver pensato che andare a vedere da solo Goodbye Lenin fosse un modo come un altro per ingannare la memoria.
Fra qualche anno, fra amici, avremmo parlato del film e ci saremmo ricordati di
averlo visto assieme. Qualcuno forse avrebbe parlato della mia assenza, ma di
fronte alla mia sicurezza – e alla precisione delle mie descrizioni, e alla
memoria fallace di qualcun altro – avrebbe pensato di essere in errore. La
discussione, molto probabilmente, sarebbe finita lì. La domenica che non
ricordavo di aver vissuto, nel futuro sarebbe stata riempita: ero andato con
gli amici al cinema. Sarebbe rimasto il vuoto nella mia memoria personale,
certo, ma non ne avrei mai parlato a nessuno.
La
mattina successiva mi svegliai nel mio letto, come sempre fino a quel giorno a
parte quella domenica di maggio del 2003. Mi sentivo sollevato e dopo aver
salutato il mio coinquilino ero uscito di casa per andare all’università. Sul
motorino però ero già meno sicuro.
Tornerà,
mi dicevo. Tornerà. La memoria prima o poi tornerà.
Mi sbagliavo, ma non potevo ancora saperlo.
Anche qui vi sono dietro alcuni riferimenti fondamentali: un film di Fitoussi, Le jour où je n’étais pas là, in cui il protagonista vive un giorno su due (e che infatti viene citato nel romanzo) e un fumetto che avevo letto adolescente su una rivista popolare che comprava mia madre, in cui il mondo (in quel caso Parigi) si rivelava essere il sogno di uno dei personaggi della storia. Ho sempre pensato che in narrazioni popolari, magari scritte male e in fretta e piene di stereotipi e luoghi comuni, si nascondano a volte idee molto valide e originali, che però non sono state sviluppate e sfruttate del tutto. Nelle scene dallo psicologo ovviamente mi sono ispirato a La coscienza di Zeno di Svevo, ma dietro il racconto c’è altro: mi interessava capire come poteva gestire l’assenza una persona piuttosto razionale, il cui unico scopo non è capire la sua stranezza, ma continuare ad apparire “normale” nel mondo.
Nella
costruzione di una vita normale – e per normale intendo socialmente accettabile
– la mia storia personale mi è stata certamente d’aiuto. Ho avuto un’infanzia
serena, anche se di una gioia che a posteriori potrei definire trattenuta. Ero
un ragazzino calmo e ubbidiente, e in adolescenza ho spesso preferito le
letture alle amicizie. Questo non vuol dire che non avessi amici: mi sforzavo,
allora come adesso, di costruire attorno a me un simulacro di socialità.
Osservavo con attenzione gli altri ed ero riuscito a creare un contesto
talmente comune che sarebbe passato inosservato alla più attenta analisi
sociologica. La strategia era piuttosto semplice: leggendo i giornali,
guardando la televisione, osservando i commenti sui social e ascoltando le
conversazioni della gente, potevo costruire una realtà “a massimo comune
divisore”. Amici con cui “facevo cose”, una fidanzata ogni tanto, niente di
serio, studi di buon livello ma non particolarmente brillanti o appassionanti.
Qualche viaggio, un paio di crisi adolescenziali non drammatiche al momento
giusto, quindi giustificate e comprensibili. Una serenità che ad uno sguardo esterno
mi faceva apparire perfettamente “normale”.
È
proprio nella ricerca di questa normalità che si cela l’orrore (e anche la
stranezza) più grande del racconto: a pensarci bene il protagonista rinuncia a
vivere relazioni sentimentali o di amicizia intense per sembrare “normale” agli
occhi di persone delle quali, come scrive alla fine sul suo diario, non è
neanche sicuro dell’esistenza. Tutta la sua vita è una rincorsa all’apparenza
che potrebbe anche essere la rincorsa di tutti gli altri: ma se allora tutti,
ma proprio tutti, vivono ingannandosi l’un l’altro, dove si nasconde la verità?
Il
protagonista sembra sempre molto saldo nelle sue convinzioni, tranne che nel
finale, quando mostra timidi cenni di cedimento: in tal caso possiamo notare
che, aprendosi all’ignoto, sembra immediatamente più profondo e più indifeso, e
infatti sceglie di ritirarsi (scomparire?) con un inchino, senza farci capire
se questa ritirata sia reale o metaforica.
Nell’estate successiva, a distanza di poche settimane, avevo avuto l’idea iniziale dei racconti Sessantacinque anni e 1993. In effetti sono racconti che considero come un dittico, non solo perché li ho pensati e immaginati quasi contemporaneamente e scritti uno dopo l’altro, ma perché riprendono, criticandoli, alcuni degli aspetti più comuni di un particolare pensiero contemporaneo. Sessantacinque anni ha come critica più evidente il pensiero fintamente progressista: continuo ad avere valori etici e politici di sinistra, non credo proprio che riuscirei a cambiarli, nonostante la mia situazione economica si sia evoluta negli anni e, in senso materialista, possa dire di aver modificato se non la mia classe sociale (sempre di classe media si tratta), almeno il mio status economico. Eppure guardo e ascolto con sempre maggior fastidio la deriva identitaria di un certo pensiero che si definisce progressista, ma in realtà cancella (volontariamente) le differenze e le ineguaglianze sociali e di classe. La trama inizia proprio, con ironia, da un luogo inquietantemente inclusivo, il Dépanneur, sorta di ufficio burocratico kafkiano in cui ci si deve registrare per morire a sessantacinque anni. Certo, come dice uno dei protagonisti, si tratta di un luogo “inclusivo” solo perché tutti dobbiamo prima o poi morire.
Con
la delocalizzazione, le aziende avevano chiuso e i due edifici più grandi
avevano ospitato per un’estate la più grande occupazione abitativa della città.
La polizia li aveva sgomberati piuttosto in fretta – un giorno umido di fine
agosto, quando tutti sembravano aver cose più importanti a cui pensare – ma il
quartiere per decenni era rimasto alternativo: un enorme centro sociale, che
ospitava concerti punk-rock e festival di fumetto e letteratura indipendenti,
aveva preso il posto delle case popolari fin quando, attraverso un movimento
lento ma percepibile, anche il centro sociale si era trasformato. Una discoteca
alternativa, così dicevano alcuni amici di mio padre che ci erano andati, ma
pur sempre una discoteca: un locale in cui si pagava l’ingresso con le
cripto-monete, che possedeva i documenti di usufrutto dei terreni, e i cui
gestori pagavano le tasse. Della politica rimanevano strofe sparse di alcune
canzoni dei gruppi che si esibivano, e i graffiti che imperversavano sui muri
delle altre fabbriche. Poi erano rimasti solo i muri a ricordare quei
movimenti, mentre i musicisti alternativi erano invecchiati e i prezzi dei
biglietti erano triplicati nel giro di mezza estate: la discoteca alternativa
era ormai un locale alla moda, e per questo fu spostato al centro della città –
stessa gestione, stesso nome, persino stessi buttafuori all’entrata, ma
cocktail più cari – allo Shibozu, il quartiere dove, dalle 21 alle 4 e 30 del
mattino, si svolgeva tutta la vita notturna. La giustificazione era che alle vecchie
fabbriche non ci fossero posti per i parcheggi con le colonnine per le
ricariche delle auto elettriche, e che il traffico bloccasse la principale
arteria cittadina che dalle 21 alle 22, mentre gli ultimi impiegati tornavano
nei quartieri suburbani, era molto trafficata.
Cancellarono
l’ultimo graffito dopo il crollo del capitalismo e decisero di metterci gli
“Uffizi per le nascite, i decorsi e i decessi”. «È un luogo inclusivo», era lo
slogan, «che serve a tutta la città e di cui la popolazione potrà usufruire».
In effetti, non era lo stesso quando c’era il centro sociale: la musica dei
Porn-corn, per esempio, piaceva a qualche vecchio amico di mio padre ma non a
me. Invece agli Uffizi ci dovevamo passare tutti, prima o poi.
Del
passato però era rimasto il nome, dagli antichi proprietari belgi di una delle
fabbriche, curiosamente la più piccola, che produceva tappi da bottiglia: il Dépanneur.
Non c’era fila perché, l’ho capito dopo, gli uffici non chiudevano mai. H24, sette giorni su sette. La burocrazia perpetua.
Nel
racconto cerco anche di giocare con i nomi, mescolando elementi della cultura
popolare, oltre ad eventi e contesti storici diversi. Il Dépanneur fa
riferimento a quei complessi industriali che prima vengono abbandonati perché
le fabbriche sono state delocalizzate o semplicemente chiuse, quindi diventano
centri sociali occupati in cui si crea o si cerca di creare una produzione
culturale alternativa, ma non appena questa produzione culturale attrae
finanziamenti si trasformano in luoghi molto meno radicali dal punto di vista
politico. E a volte finiscono per diventare semplici luoghi di svago per la
classe medio-alta, con un vago ricordo, sempre più liso, di ribellione, ma di una
ribellione, diciamo così, “alla moda”. Contrariamente a quanto affermo nel
racconto, il nome non è di origine belga, ma canadese: nel Canada francese
infatti il Dépanneur è una sorta di supermercato in cui si vende e si compra di
tutto, soprattutto cibo, ma anche giornali, talvolta vestiti, oggetti per la
casa. Invece il quartiere Shibozu prende l’idea dal quartiere omonimo di Tokio:
non l’ho mai visitato, ma mi ha sempre inquietato la possibilità di creare uno
spazio solo per l’ozio notturno, come se fosse un luogo staccato dal resto
della città. Mi sembra un enorme parco-giochi, che ha anche ripercussioni
sociali: spesso quando si esce la sera si fanno incontri inaspettati, anche con
persone che, proprio come alcuni oggetti nella letteratura fantastica, non
dovrebbero essere lì. Mi è capitato di incontrare anziane signore che mi hanno
invitato a casa, vecchietti che mi hanno mostrato delle lettere d’amore delle
loro fidanzate di sessant’anni prima. Sarebbe successo se fossi uscito in un
quartiere solo di discoteche e bar per giovani? Il Sigurimi infine prende il
nome dal servizio segreto dell’Albania comunista; mi piaceva inserire un
elemento dell’ex blocco dell’Est, per due ragioni: la prima è che la società
che descrivo, come dice un personaggio, è un misto fra il capitalismo New Age
della classe alta di Los Angeles e il controllo dei sistemi socialisti, e
quindi il Sigurimi aveva un senso in questo ibrido; la seconda è che un
servizio segreto meno conosciuto come il Sigurimi avrebbe potuto generare nel
lettore un senso di inquietudine, che era proprio quello che volevo creare nel
racconto. Se avessi usato sigle come Stasi o Kgb avrei portato chi leggeva in
un contesto troppo conosciuto e quindi fuorviante.
Ma il racconto è anche e soprattutto la storia della relazione di un padre e un figlio – anzi: di due padri e due figli, nel senso di un nonno, un padre e un nipote – e dei loro conflitti. Dietro c’è una questione poco analizzata, forse, ma per me fondamentale, soprattutto in un periodo della mia vita in cui mio figlio sta diventando adulto: l’invidia della giovinezza e di un corpo perfettamente funzionante e performante. Viene raccontata con troppe reticenze la perdita lenta ma costante delle funzioni del nostro corpo; ne acquistiamo altre, certo, ma alcune le perdiamo irrimediabilmente. Il padre sessantacinquenne non vuole morire, e giustamente perché la sua morte altro non è che un omicidio crudele fatto passare per un gesto solidale e collettivo; la sua paura però include anche la rabbia per il figlio che invece ha ancora anni davanti a sé, tanti, ma non come quelli del nipote, e così via, all’infinito.
Quando
era piccolo mi sedevo in camera a giocare con lui e, all’epoca, il figlio unico
non era ancora obbligatorio, ero io che lo rendevo unico, ne avremmo potuti
avere altri se avessimo voluto. Gli ho insegnato ad andare in bicicletta, a
tirare di collo e non di punta, a cuocere gli spaghetti al dente e a mettere
l’ammorbidente nella lavatrice. È sulla mia spalla che ha pianto quando è stato
rimandato in matematica alle medie – niente più veterinaria, un piccolo sogno
già infranto – e sulla stessa si è appoggiato quando a ventiquattro anni Marika
lo ha lasciato. Quando Sonia era incinta di Diego, nell’ultimo anno utile –
quarantuno, quarantadue, non ricordo con esattezza, idea geniale sposarsi con
una più grande di questi tempi – è me che ha chiamato, e il mio silenzio di
lacrime – di gioia, ma anche di sollievo, perché senza figlio quel lavoro non
l’avrebbe potuto tenere – è stato percepito per primo dal suo orecchio.
Già sapeva, già immaginava, fin da quando giocavamo insieme a pallone e io per non umiliarlo usavo solo il sinistro? No, mi dico adesso, la legge ancora non c’era all’epoca. Quando è stato? Ero troppo poco giovane per andare in piazza a protestare e non abbastanza vecchio per preoccuparmi davvero. E ora che mi manca solo un anno ho paura. Sessantacinque anni, ma che cazzo vuol dire? Io voglio viverne settanta, ottanta, cento, vorrei non morire mai se possibile. Sono egoista? Forse. Ma almeno mi batto, a scadenza non ci voglio stare. E invece lui resta zitto, come se fosse normale. Mi guarda, beve il caffè con me al mattino, mi dice di bere la spremuta che “fa bene”. Ma fa bene a che, che fra un anno mi manda al Dépanneur?
1993 invece riprende una mia vecchia ossessione, che ho sempre avuto (ricordo che il primo racconto che ho scritto a dodici anni si chiamava Il sosia) e che riguarda il rapporto fra la realtà e la sua rappresentazione. Non uso i social, ma la domanda alla base si ritrova nel quotidiano di chi li usa molto o ci lavora: se vivo come se una realtà virtuale fosse reale, questa realtà non diventerebbe infine reale? Il milionario del racconto ricostruisce un anno della propria vita esattamente come se fosse reale. Solo che poi le persone ci vanno a vivere, vengono pagate con le monete del tempo, ascoltano film e musica dell’epoca, mangiano cose di anni prima. In che cosa quindi non sono reali? Stanno vivendo esattamente quell’anno, niente di più e niente di meno. E il racconto mostra che quell’anno si può anche ripetere all’infinito.
Un
barista era stato particolarmente loquace, me ne aveva tessuto le lodi, diceva
che si era informato sulle ricette che si facevano prima, sui tipi di caffè –
il caffè è una delle cose che è cambiata più lentamente, negli ultimi
trent’anni – sulle colazioni speciali.
«E
com’è?» Mi era venuto da chiedergli, cavalcando quella vicinanza improvvisa.
«Com’è
che?»
«Com’è
vivere come fa lui, come vuole vivere lui? Non è strano?»
«È
come dappertutto, che vuoi che ti dica… Il tempo sempre quello è, solo che
all’inizio qui invece di andare avanti pareva che andasse all’indietro. Poi si
è fermato. E infine si è ripetuto».
«Appunto…
non è strano, non vi sembra strano vivere così?»
«Ci
fai l’abitudine, guarda… Poteva andarci peggio, poteva essere un anno peggiore,
che ne so, l’anno di una guerra o di un’esplosione nucleare».
La
redazione aveva poi perso interesse per il progetto. C’era stata la pandemia,
la guerra in Ucraina, vivevamo con l’ansia del riscaldamento climatico o, più
semplicemente, della fine di tutto. Ma era stato un giugno particolarmente
caldo a farmi ritornare da lui. Avevo detto alla direttrice che, secondo me,
proprio per quella sua vita fuori dal tempo, qualcuno l’estate il reportage lo
avrebbe letto volentieri. Inoltre erano usciti due romanzi che parlavano di
nuove comunità come quelle degli anni Settanta, quasi fossero delle sette… A
quel punto Mirella era sembrata di nuovo interessata e aveva accettato la
proposta di un articolo. «A settembre deve essere pronto, però. E hai poco più
del rimborso spese».
Ovviamente avevo accettato, ma non sapevo che mi stavo sbagliando: quella non era una setta, non era neanche un mondo nuovo. Era il 1993.
Ricreare
il 1993 diventa quindi “essere” nel 1993, ma alcuni decenni dopo, con
l’illusione di poter riprendere il corso della storia (e della propria vita,
più banalmente), per cambiarlo. È come un’allucinazione collettiva: se tutti ci
credono, che sia vero o no non ha importanza, la reazione è come se fosse vero.
Ho
scelto il 1993 non a caso: mi è sembrata molto superficiale la riflessione
mediatica pubblica che si fa in Italia oggi sugli anni Novanta, come se fossero
anni “ottimisti” da mettere in contrapposizione con il periodo che stiamo
vivendo, fra guerre, pandemie e cambiamento climatico. Io gli anni Novanta li
ho vissuti, e non ho percepito alcun ottimismo. Probabilmente c’è stato nel
1989, con il crollo del Muro di Berlino, ma le guerre in Iraq e quelle nella ex
Jugoslavia (con genocidi, assedi, stupri di massa) lo hanno fatte passare in
fretta. A Sarajevo l’Europa bombardava con l’uranio impoverito, mangiare carne
bovina poteva portare alla morte dopo la mucca pazza, gli Stati Uniti e la Nato
mettevano a ferro e fuoco il Medio Oriente, in Ruanda vi erano uccisioni di una
violenza inaudita. Ricordiamocelo, quando idealizziamo gli anni Novanta. Mi
sembra che questa idealizzazione abbia soprattutto due ragioni: una prima
ragione generazionale, perché i giornalisti che lo scrivono spesso li hanno
vissuti nella loro giovinezza, dunque l’ottimismo di cui parlano non è quello
della società, ma semplicemente il loro ricordo e quello del loro corpo
giovane; la seconda è che questo ottimismo del passato serve anche ad affossare
sempre di più il presente. Credo che quest’epoca sia complessa e problematica,
ma che non sia affatto impossibile venirne fuori e che un futuro migliore è
sempre possibile.
Il racconto infine è stata per me l’occasione (questa sì, nostalgica) di parlare di film e musica degli anni Novanta. Abbiamo avuto delle produzioni culturali, anche commerciali, di grandissimo livello, che però quando venivano fatte circolare venivano sminuite perché confrontate con capolavori del passato. Il racconto è anche un modo per parlare di opere forse commerciali, ma estremamente interessanti, anche a distanza di diversi anni.
Le
nuove uscite del 1993 sono illuminanti. Prendo in mano la videocassetta di Schindler’s List, la rigiro nei palmi e
mi stupisco di quanto sia leggera. «Un capolavoro», mi dice il signore dietro
al bancone. «Uno dei rari casi in cui un film d’autore piace anche al grande
pubblico. E conta che a me di Spielberg è sempre piaciuto tutto, eh? Pure E.T., ma anche i film meno conosciuti. Duel per esempio l’hai visto? Non è Lo squalo, certo, non è un film di
successo, ma a suo modo è diventato un piccolo cult. Ho fatto venire la
videocassetta il mese scorso, già l’hanno affittata in quattro. Ti interessa?»
Ringrazio,
ma rispondo che l’ho già visto, e in effetti non è male. Schindler’s List però non mi è piaciuto: l’ho trovato troppo
facile, un film a effetto, e ho odiato quella ragazzina rossa che si stagliava
sugli altri personaggi in bianco e nero, roba da circo. E poi il buon tedesco
che salva gli ebrei, per far capire che no: non è che i nazisti fossero tutti
malvagi, c’era pure chi non era cattivo per niente e aveva subito le nefandezze
della storia… E dai su! […]
«Ora
vedo, di fantascienza che avete?»
«Guarda,
è appena arrivato e… che te lo dico a fare? È sempre di Spielberg, quell’uomo
non solo è un genio, riesce persino a fare due film incredibili nello stesso
anno! Una storia di un parco in cui vengono clonati dinosauri, assurdo! Jurassic Park. Fidati, questo è il film
di cassetta dell’anno…»
Jurassic Park era stato
il primo film che ero andato a vedere al cinema senza i miei genitori, con il
mio migliore amico delle medie. Mia madre ci aveva accompagnato in macchina,
aveva sostato in seconda fila e ci aveva dato diecimila lire per uno: «Così ci
comprate le Bomboniere fra primo e secondo tempo». Il mio amico aveva
protestato: «Mia mamma mi ha dato i soldi», diceva «mi ha detto che devo
pagarlo io il cinema, che non dovete offrirlo voi». «Ci parlo io con tua
madre», aveva risposto ferma la mia. «Vale per tutte le volte che ve lo tenete
a dormire e soprattutto a mangiare, che mangia come un bufalo». E mi aveva
guardato negli occhi, facendomi irritare e vergognare (perché è vero, mangiavo
tantissimo, e a casa del mio amico si mangiava meglio che da me, c’erano sempre
le fettine panate e la Coca-Cola). […]
Ora
ritrovavo lo stesso film, in un 1993 ricostruito all’indomani dei miei
quarant’anni.
«Le
storie di dinosauri non le ho mai rette», avevo detto al commesso, «avete
qualcos’altro di fantascienza?»
«C’è
una cosa un po’ diversa, che non piace a tutti, con Bill Murray. Una storia
divertente, un giorno che si ripete all’infinito…»
«Il giorno della marmotta!»
«Cosa?»
«Il giorno della marmotta, è
il titolo del film, no?»
«No,
non mi sembra… aspetta che controllo… infatti, eccolo: Ricomincio da capo. Il giorno
della marmotta dev’essere un altro film».
«È
il titolo originale in inglese, Groundhog
Day. Poi lo hanno cambiato anche in Italia».
«Ma quando, scusa? Lo abbiamo ricevuto la settimana scorsa».
Il
finale è volutamente un riferimento a Philip K. Dick, che probabilmente è stato
il più grande scrittore a rendere ambiguo il velo sottile che divide mondi
reali e virtuali.
L’ultimo
racconto, Gli asini de L’Hospitalet,
è stato scritto contemporaneamente in italiano e in catalano per un’antologia
di un editore di lingua catalana e spagnola, Sfabula, sulla Barcellona sotterranea.
Ho preso l’idea dalle cinque stazioni ormai abbandonate della metropolitana,
come se i loro collegamenti costituissero un sistema economico sotterraneo
alternativo.
Ho recuperato una vecchia idea sulle relazioni e i conflitti fra esseri umani e animali, e l’impiego degli asini ha un doppio significato: da una parte sono gli animali stupidi per antonomasia (“sei stupido come un asino”, si dice in italiano), che però questa volta si ribellano agli esseri umani e dunque tanto stupidi non sono; dall’altra, avendo vissuto per tanti anni in Belgio e avendo studiato la storia delle miniere, ho visto come venivano usati i cavalli nelle mine di carbone: sfruttati, deformati anche fisicamente, non uscivano neanche dalle miniere perché troppo grandi e vivevano tutta la vita al buio, diventando ciechi.
L’idea
l’aveva avuta uno dei deputati più anziani, il cui nonno, durante il
franchismo, era emigrato ad Anversa, in Belgio, e aveva lavorato nelle non
lontane miniere di Genk. «Nella mina erano i cavalli a trasportare il carbone,
mica gli uomini!» aveva detto in una seduta parlamentare, suscitando l’ilarità
generale. Ma non aveva tutti i torti. Per trasportare i funghi nel sottosuolo,
si sarebbero potuti utilizzare gli animali. Solo che i cavalli non entravano
nei nuovi tunnel, erano troppo grandi. Gli asini catalani invece sì, avevano le
dimensioni perfette. Ne erano rimasti però solo 400, così il comune di Girona,
da dove provenivano, si era affrettato a creare centri di riproduzione
intensiva, equilibrando gli ormoni per renderli resistenti ma non troppo
grossi, altrimenti non ci sarebbero entrati neanche loro nei tunnel. In cambio,
anche Girona era potuta entrare nella Grande Barcellona che ormai era diventata
una sorta di metropoli espansa. Ma l’idea era quella giusta: gli asini
trasportavano facilmente i funghi umidi sul dorso da un carro all’altro – e quando
c’erano i blocchi elettrici addirittura da una stazione all’altra – e non si
stancavano mai. L’unico problema era costituito dalla stazza: dopo un anno in
fungaia, le gambe si irrobustivano e diventava difficile farli entrare e uscire
continuamente. Per questo motivo, si era deciso di farli vivere e riprodurre
direttamente nel sottosuolo, proprio come accadeva ai cavalli nelle miniere: e
come i cavalli erano diventati semi-ciechi e a furia di portare pesi sul dorso
anche deformi, con una specie di dosso al centro della schiena. Non erano
belli, questo no, ma erano tremendamente utili.
Alcune associazioni animaliste avevano però protestato e così eravamo arrivati alla situazione attuale: non si potevano più introdurre asini catalani in fungaia, perché erano ormai una specie protetta, ma si potevano utilizzare quelli già presenti nel sottosuolo, che si sarebbero riprodotti all’infinito, secondo il fabbisogno della popolazione.
Anche
qui c’è una critica ironica ad alcune contraddizioni del presente: i sindacati
non vogliono che nel sottosuolo ci vadano gli operai, ma non si fanno problemi
ad accettare che ci vadano gli asini; le associazioni animaliste criticano come
gli animali sono trattati, ma accettano che possano riprodursi all’infinito
sottoterra. Nessuno in fondo vuole davvero rinunciare al proprio privilegio.
L’altro elemento centrale del racconto è il fungo. La simbologia del fungo è ovviamente ricca e complessa, in letteratura come nelle culture occidentali e non. Il fungo è l’elemento che svela il mondo altro ad Alice nel romanzo di Carroll, ma è anche un allucinogeno che può farci vedere la realtà in modo diverso. Qui è impiegato in un contesto molto più prosaico: il fungo è una sorta di petrolio, materia prima preziosissima che permette a Barcellona di essere autonoma finanziariamente e che quindi la rende anche cinica. Noi siamo in salvo dalla crisi economica, sembra dire la città, dunque ci chiudiamo, al massimo elargiamo i nostri privilegi alle città vicine che ci sono utili.
Il
fungo era la sola ragione per cui ero rimasto in città, sarebbe stato folle
andarsene. Lo avevano individuato per la prima volta due anni dopo la guerra in
Ucraina, nella vecchia stazione della metro della Bordeta, inutilizzata ormai
dal 1978. Sotto gli hangar umidi, attaccato alle pareti, cresceva verdastro
come i suoi parenti cittadini, apparentemente inutile se non addirittura
velenoso. E invece... All’inizio se ne era occupata un’equipe di micologi
dell’Universitat de Barcelona, fra il disinteresse generale. La Vanguardia e El Periodico effettivamente avevano pubblicato un paio di articoli
che paventavano la possibilità della scoperta di una nuova specie di fungo,
chiamata provvisoriamente fungus novissimus (il nome sarebbe stato in
seguito cambiato in fungus barcinus), ma sembrava una di quelle notizie
minori, utili per distrarre i lettori dal periodo tragico che stavamo vivendo.
L’inflazione aveva superato il trenta per cento, i salari erano fermi dal 2007,
i supermercati si stavano svuotando a vista d’occhio: prima erano diminuiti i
clienti, poi anche i prodotti perché la giunta comunale non aveva i mezzi per
importare cibo. Andare al Mercadona il sabato pomeriggio, offriva uno
spettacolo bizzarro: sembrava di essere negli anni Ottanta ma in una città del
blocco comunista come Tirana o Sofia, non a Barcellona! Larghi spazi vuoti fra
un prodotto e l’altro, cassieri annoiati che guardavano il cellulare, file di
persone all’esterno che chiedevano cibo (e non soldi!) ai pochi clienti che
uscivano. Poi il fungo era stato analizzato.
Per una volta, gli scienziati erano stati tutti d’accordo: quel fungo saprofita che si nutriva del micro-muschio in decomposizione aveva proprietà nutritive mai viste. Era facile da digerire, insapore, bastava ingurgitarne una modica quantità giornaliera per sopperire al fabbisogno energetico quotidiano. E, soprattutto, si poteva coltivare. Per uno strano scherzo del destino, le vecchie stazioni abbandonate della metro sembravano il suo habitat naturale: la giunta comunale aveva recuperato altre cinque stazioni dismesse (Banco, Fernando, Correus, Gaudí, Horta) che con Bordeta formavano una lunga linea fantasma, diventata ora un’enorme fungaia pubblica.
Il
finale, piuttosto amaro, riprende una delle riflessioni più classiche sulle
frontiere: ci proteggono o proteggono gli altri da noi? Costruire muri ci aiuta
a difenderci o in un ambiente chiuso la nostra follia e la nostra violenza
aumentano a dismisura?
[Copyright: Daniele Comberiati]