[Arben
Dedja: „The Vanishing Twin„]
In questo preciso istante c’è solo una distesa di acqua
salata che separa la terra d’origine di Arben Dedja dalla mia. Qui, la costa
romagnola irrorata dal polline dei pini. Sull’altra sponda, scavalcato
l’Adriatico bicolore e puntato il timone un po’ più a sud, l’Albania da cui
ancora si parte con un bagaglio a mano di speranze.
Arben, dalla sua terra, se n’è andato più di quindici
anni fa, con una laurea in medicina come lasciapassare. Quella verso l’Italia è
stata una traversata forse già iscritta nel suo DNA: impara l’italiano da
bambino, traduce Cavalcanti, Montale e Saba, scrive poesie direttamente nella
nostra lingua o si autotraduce. Oggi fa ricerca nel campo della cardiochirurgia
pediatrica presso l’Università di Padova.
Ed è così che penso a lui: il dottore poeta con un
bisturi penna tra le dita.
Leggo i suoi versi per la prima volta ed è immediata la
sensazione di familiarità. Li rileggo con sempre più curiosità e trasporto, da
poeta che si confronta per imparare e crescere. Mi soffermo una terza volta su
questa raccolta con una punta biforcuta di rammarico e invidia per non essere diventata
anch’io un camice bianco, come vagheggiavo da bambina. Per non aver saputo
conciliare gli interessi per la scienza e la letteratura, per averli
considerati incompatibili. L’emisfero sinistro contro il destro. Il mestiere
contro il piacere. Dedja invece lo fa, con una sensibilità così spiccata e tenera
che, anche quando estrae e sfodera parole affilate e vocaboli tecnici, viene
spontaneo affidarsi completamente al suo tocco delicato da chirurgo che sa
indossare i guanti. L’umanità di chi sceglie consapevolmente la professione
medica avvicina il poeta all’altro, al proprio simile e diventa un valido
baluardo contro il diffuso autoreferenzialismo. “Siamo tutti | esseri umani”,
scrive Arben.
La medicina, direttamente o indirettamente evocata,
riveste un ruolo di prima donna in questa raccolta e non è cosa scontata, non
trattandosi di un soggetto da tipico repertorio lirico. Non diventa mai sterile
nozionismo o freddo tecnicismo.
Dedja ha il dono della traslazione, del parallelismo
senza artifici né retorica. I suoi versi viaggiano su binari di dimensioni e
significati naturalmente paralleli. Il sonno del figlio febbricitante richiama
la malattia del giacere. L’elusione del meccanismo di anoìkis (dal greco, “senza
casa”: la morte programmata delle cellule distaccate dalla loro matrice) da
parte delle metastasi è associata al distacco dalla vecchia madre, dalla casa
in cui è cresciuto. L’allontanamento dalle radici ha forse un ruolo nel cancro
delle nostre vite e delle nostre morti? Citando il nome di Jules-Émile Péan,
padre della chirurgia addominale, il poeta rimanda velatamente all’omonimo dio guaritore presso i greci (appunto Péan, identificato successivamente con
Apollo) e ai canti corali in suo onore per richiedere protezione o ringraziare
per le grazie ricevute.
È evidente sin dal titolo della raccolta, “The vanishing
twin”, che la forte umanità di Arben affonda le sue
radici là dove il futuro uomo è ancora in gestazione. Letteralmente. Senza
voler anticipare una rivelazione che giunge sul finire del libro (appunto sul
suo “svanire”) come un taglio che non lacera ma, al contrario, ricuce i vari
lembi di un’intera vicenda umana, qui basterà soffiare all’orecchio del lettore
la peculiarità della dimensione della “dissolvenza” nella poetica di Dedja.
Che scriva di esistenze anteriori alla vita, di
generazioni (la sua e quella dei suoi figli) accumunate dal
limbo dell’infanzia, del sipario calato sull’Albania degli scontri e
dell’anarchia, della malattia (del corpo e del vivere)
come punto d’intersezione tra la vita e la morte: immagini mai veramente ovattate,
per quanto lontane possano essere, bensì vividi e materici ponti di
collegamento (o punti di sutura) tra i tempi vissuti.
Nella sezione d’apertura, “L’ora del bagno”, a cui
istintivamente ho associato la mia ora del Carosello, si fondono i vapori
evanescenti dell’infanzia albanese del poeta con quelli più densi della fanciullezza
dei suoi figli. Arben bambino/ragazzo passa il pallone a Dedja uomo/padre. Il quotidiano
di allora sfuma in uno più recente. Resta immutata la sensazione avvolgente di
calore domestico, di compiacimento per i piccoli dettagli che cristallizzano la
piacevolezza del ricordare.
S’inseriscono la fierezza e l’orgoglio del padre, del
capofamiglia, insieme alle premure di un papà che pare autoinvestitosi anche
del ruolo materno. Vi è la duplice dimensione del dare e ricevere protezione.
La casa, gli affetti, presenti e passati, sono rifugio. Guscio che accoglie e
ripara, corazza dentro cui sognare, al sicuro. Guscio di noce, di pinolo. Cachi
e mele cotogne. Cotogna, frutto antico, sacro ad Afrodite.
Frutti autunnali. Stagione dei morti. Ma la morte non è
uno spauracchio: il medico ne conosce le insidie e, nei limiti dell’umano, sa
contrastarla o procrastinarla; d’altro canto il poeta non teme la promiscuità
con i defunti.
Più difficoltosa sembra essere l’accettazione del declino
e dell’invecchiamento. E non è di consolazione vedere perpetuarsi in natura lo
stesso destino, l’alternarsi di fasi di vita rigogliosa ad altre di sfioritura
e putrescenza. Non basta sintonizzarsi con i cicli e le stagioni che si
avvicendano:
la natura vivrà sempre più a lungo, sopravvivrà all’uomo,
l’ultimo ad arrivare e il primo ad andarsene.
Però, e qui sta la profonda leggerezza della poesia di
Dedja, al “marciume del nulla” o al “porcaio d’esistenza” sono affiancate
immagini di trasformazione e mutamento che suonano come un inno alla vita e
alla bellezza dei suoi necessari e inevitabili cambiamenti. Immagini fornite al
poeta dai tre regni del mondo naturale. Di nuovo la mela cotogna, a metà strada
tra il fiore e il frutto, il sapore acre da cruda e dolce quando diventa
confettura, la morbida peluria che riveste la buccia: le fanciulle la colgono
mentre si affrettano verso il tempo delle donne. Il baco da seta che tesse il
bozzolo, i figli che crescono e trovano il loro cammino nel bosco della vita.
Il ferro si altera
e ossida nelle intemperie, ma i giovani, nel diventare
adulti, non devono cedere alla ruggine degli asti e delle acredini.
Quella di Arben è una natura metaforica che interagisce
con l’uomo in veste di suo alter ego.
Il poeta si rivolge alla cimice, al picchio, all’aquila.
Adagia i versi su una coltre di muschio o all’ombra
del pino nero, del gelso o del vecchio noce. A
tratti, persino gli oggetti sono caricati di attributi umani (lenzuola capaci
di ricordare e pensare), altre volte è l’uomo ad assumere le caratteristiche
del manufatto (le profondità dell’animo simili a quelle di un bunker).
Oggettivato o naturalizzato che sia, l’uomo è il secondo
protagonista di questa raccolta. Il poeta ora lo celebra, con sentita
ammirazione, per gli indiscussi meriti (gli scienziati Calmette e Guérin,
inventori del vaccino antitubercolotico); ora, con bonaria ironia, lo ridicolizza
per le antitetiche conquiste nel salvare e distruggere vite (Joseph Guillotin,
Presidente della Lega dei Medici, fondatore del Comitato della Salute eppure
inventore della ghigliottina; o Richard Gatling, colto medico galantuomo
inventore della mitragliatrice…); ora utilizza l’arma del sarcasmo per condannarne
la cecità politica, la repressione culturale e l’ottusa violenza (il Partito,
la polizia albanese).
In tutte le sezioni che compongono “The vanishing twin”
echeggiano le voci e i suoni della patria lasciata alle spalle: alcuni sono
appena sussurrati, come quelle verità inconfessabili svelate a lui solo, ancora
bambino, dal nonno ex ministro; altri, spiati, come quando la madre faceva
l’amore nella stanza accanto; altri ancora, improvvisi e mortiferi, come lo
scoppio di una granata o il rombo di un attacco aereo.
La bandiera albanese, con quella sua aquila nera bicefala
su sfondo rosso, appare ridicola agli occhi del poeta, ma non vi è disprezzo
nelle sue parole. Chi odia ama, no? Certo, non si può amare un regime, né i
suoi soprusi, le censure o le ingiuste ristrettezze; come non resta che
sfuggire agli orrori della guerra civile e del caos sanguinario. Eppure
quell’aquila, simbolo di rivolta e anelito alla libertà, si aggira di continuo
nel cielo poetico di Arben e lo fa con un volo dalle tinte forti, intrise di
dolcezza o rabbia, mai neutre.
E sta nel finale della poesia che dà il titolo alla
raccolta la chiave per la quadratura del cerchio, l’alfa e l’omega del sentire
da cui scaturisce la poetica dell’autore: “ – Sono | denti capelli | pezzo raggrinzito | di cranio | non assorbito |
del mio gemello | della mia Patria.” Patria che resta, al pari di una
traccia nera sulla pelle, come un’ombra del cuore, ma pur sempre con la P
maiuscola. Patria svanita come quel gemello mai nato.
Arben Dedja: THE VANISHING TWIN
a cura di Mia Lecomte
prefazione di Gabriella Montanari
© Salento Books